Performance Art negli anni Cinquanta: una breve guida

Performance Art negli anni Cinquanta: una breve guida

Performance Art negli anni Cinquanta: una breve guida 1200 800 Damiano Fina

Come anticipato nel post precedente Breve storia della Performance Art nel XX secolo, il rapporto dal vivo tra il performer, la performance e lo spettatore non è una novità per la storia dell’arte fin dagli albori dei racconti dei nostri antenati attorno al fuoco. Nel XX secolo, tuttavia, la performance acquisisce un’identità e un vocabolario propri all’interno della storia dell’arte, identificandosi come una pratica artistica durante la quale il performer è l’artista che stabilisce la sua presenza nella società. Ecco una breve guida alla Performance Art negli anni Cinquanta.

 

Gutai: la Performance Art in Giappone

Le avanguardie storiche sperimentano le idee dei loro manifesti attraverso eventi durante i quali il corpo e la presenza dell’artista iniziano a essere protagonisti. Nel 1954 in Giappone un gruppo di artisti composto, tra gli altri, da Jiro Yoshihara, Kazuo Shiraga, Shozo Shimamoto, Saburo Murakami, Shigeko Kubota e Atsuko Tanaka si riunisce sotto il nome Gutai[1], ovvero “concreto”, che aveva lo scopo di superare ogni forma d’astrazione in virtù di un’arte nuova, libera e originale. Oltre a intervenire nello spazio attraverso installazioni e ambienti in cui lo spettatore entrava nell’opera d’arte, i Gutai organizzarono delle serate durante le quali gli artisti compivano delle azioni, anticipando gli Happenings di Kaprow.

Nel 1955 in Six Holes, Murakami perfora delle grandi tele gettandosi dentro; Shiraga lotta con il fango in Challenging Mud e poi espone le tracce lasciate dal suo gesto e in altre occasioni usa il suo corpo per dipingere; Yasuo Sumi frappone fra sé e il pubblico un vetro trasparente, lanciando verso di questo del colore. È il critico francese Michel Tapié a contattare il gruppo giapponese tra il 1956 e il 1957, organizzando una mostra a New York l’anno successivo, un’altra a Torino nel 1959 presso la galleria Notizie e contribuendo a far conoscere il gruppo giapponese in Europa e Stati Uniti.

Negli anni Cinquanta in Giappone si sviluppa contemporaneamente anche la danza butō. Leggi l’articolo sulle origini della danza butoh.

Nel 1948 Eugen Herrigel pubblicò il libro di successo Lo zen e il tiro con l’arco[2], enfatizzando l’importanza della concentrazione nella calligrafia e nelle arti marziali orientali e contribuendo a diffondere in Occidente questa dottrina orientale, che aveva lo scopo di celare il rigore della pratica dietro a un’apparente naturalezza. Rispetto a questa filosofia, l’azione del Gruppo Gutai diventa particolarmente interessante non solamente perché dialoga con la disciplina e la spontaneità del gesto artistico, ponendo in risalto il ruolo del caso e dell’indeterminato, ma anche perché evidenzia lo slancio creatore dell’artista, che attraverso il proprio gesto guadagna una certa presenza rispetto alla tecnica. Il peso della presenza dell’artista sarà -come vedremo- un elemento fondante della performance.

 

Yves Klein: non solo Anthropometries

La filosofia orientale Zen e l’interesse per le nozioni di disciplina, caso e indeterminatezza furono fonti d’ispirazione anche in Occidente, sia per Cage e Cunningham presso il Black Mountain College, ma anche per le pratiche artistiche degli artisti europei, tra cui Yves Klein, che era anche praticante di Judo.

Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta, l’artista francese con le sue Antropometries dipingeva le tele attraverso il corpo delle sue modelle, dirigendole come fosse un direttore d’orchestra, mentre alcuni musicisti suonavano la Monotone Symphony. Nei primissimi anni Sessanta Klein conduceva una serie di azioni chiamate Immaterial Pictorical Sensitivity Zones, durante le quali l’artista gettava nella senna della foglia d’oro, mentre l’acquirente bruciava la sua ricevuta, dopo averla comprata dall’artista.

Tutto quello che apparteneva alle sette transazioni condotte tra artista e acquirenti è stato distrutto, lasciando nella storia dell’arte e tra i due soggetti della transazione una “qualità immateriale” dell’azione. Queste azioni conferiscono al gesto artistico un carattere effimero, che si concentra sulla relazione tra l’artista e l’acquirente, in quest’ultimo caso, oppure tra l’artista e il gesto del dipingere, nel primo.

Oltre all’intrinseco carattere spirituale, le opere di Klein non sono prive di sarcasmo e ironia, soprattutto nei confronti del mercato dell’arte. Il rapporto tormentato tra artisti e mercanti d’arte non è sicuramente una novità nella storia dell’arte, ma -come avremo modo di approfondire- i performer rifletteranno in molte occasioni sul rapporto tra artisti, arte, pubblico, mercato e contesto di riferimento attraverso azioni violente, spirituali o anche ironiche[3].

 

Piero Manzoni: l’allievo di Marcel Duchamp

Con una sensibilità analoga a Klein e un’ironia simile all’azione di Paik del 1961, l’italiano Piero Manzoni s’inserisce nel solco della nostra riflessione sui germogli della performance, legandosi anche alle avanguardie storiche. Nel 1961 inaugurava a Milano una mostra intitolata Living Sculpture[4], che esponeva modelle firmate dall’artista con tanto di certificato d’autenticità, considerandole “opere d’arte reale”.

Manzoni, inoltre, imbottigliava in palloncini il proprio fiato e inscatolava le proprie feci, rendendo questi scarti del proprio corpo opere d’arte in virtù del proprio gesto. Attraverso il richiamo all’arte di Manzoni evidenziamo come le azioni appena descritte, attraverso il corpo e il gesto dell’artista, diventino le prove di autenticità affinché il risultato venga considerato “opera d’arte”.

Sicuramente non siamo lontani dal ready made e dall’ironia nei confronti del mercato dell’arte di Marcel Duchamp, che nel 1919 aveva imbottigliato l’aria di Parigi in una piccola boccetta, tra i suoi tanti readymade. Ora, tuttavia, non è solamente il gesto dell’artista e la sua firma a rendere l’opera d’arte “arte”, ma il corpo dell’artista diventa un elemento centrale, che caratterizzerà la definizione stessa di performance.

 

Fondamenti della Performance Art negli anni Cinquanta

Grazie a questi tre brevi esempi abbiamo potuto riscontrare nella storia dell’arte degli anni Cinquanta tre elementi che saranno fondamentali per il vocabolario della performance nel proprio periodo di maturità inaugurato con i performer degli anni Settanta:

  1. l’uso del corpo dell’artista,
  2. il carattere effimero dell’azione artistica -che si traduce con spiritualità o ironia a seconda dell’artista- e
  3. la presenza dell’artista.

Semplificando, potremmo riconoscere il merito a Manzoni di aver utilizzato il corpo dell’artista per compiere l’opera d’arte, a Klein di aver enfatizzato la natura effimera del gesto artistico e al gruppo Gutai di aver stabilito un nuovo peso per la presenza dell’artista rispetto alla tecnica. Il gruppo Gutai, inoltre, sembra interessarsi anche al rapporto tra la presenza dell’artista e il pubblico, sia attraverso azioni come quella di Yasuo Sumi, sia attraverso la creazione di ambienti in cui gli spettatori s’immergono nell’opera d’arte[5]. Questi ambienti interessano la storia della performance soprattutto per l’interesse da parte degli artisti all’esperienza vissuta dal pubblico, che viene inteso come una parte attiva e non passiva nella co-creazione e non solo nella fruizione dell’opera d’arte[6].


[1] Yoshihara J., Manifesto Gutaj, in Geijutsu Shincho, 1956 trad. Cossu M., Monferini A., Osaki S.

[2] Herrigel E., Lo zen e il tiro con l’arco, Adelphi, 1975.

[3] Alcune volte l’ironia e il sarcasmo erano diretti anche contro gli artisti stessi, basti ricordare che, nel 1962, il sudcoreano Nam June Paik dipingeva una lunga striscia di carta, dopo essersi intinto i capelli di colore misto a pomodoro nell’azione Zen for Head.

[4] Termine che ritroveremo nel cuore della storia della performance degli anni Settanta con la celebre coppia di performer Gilbert&George.

[5] Anche le sperimentazioni artistiche nello spazio da parte degli artisti non sono una novità per la storia dell’arte del Novecento. Per quanto riguarda il XX secolo si ricordano nel 1923 l’Ambiente dei Proun di El Lissitzskij e il Merzbau di Kurt Schwitters; negli anni Cinquanta gli ambienti spaziali di Lucio Fontana e gli ambienti creati dal gruppo Gutai; le due mostre presso la galleria parigina di Iris Clert Le vide (1958) e Le plein (1960), rispettivamente di Klein e Arman; infine, nel 1959, la Caverna dell’antimateria di Pinot Gallizio. Kaprow, Oldenburg, Segal, Judd, Flavin, Morris, Le Witt, Nauman, Graham e Buren sono alcuni nomi celebri che proseguirono l’investigazione dello spazio prima dei grandi esponenti della Land Art nella stagione a cavallo tra anni Sessanta e Settanta (cfr. Turrell, Heizer, Christo e Jeanne-Claude, De Maria, Smithson).

[6] Si badi a non intendere il pubblico “attivo” solamente nella fruizione dell’opera d’arte, infatti molti artisti nel corso del XX secolo e ancora di più nel XXI secolo saranno attenti agli “spettatori” delle proprie opere come co-creatori. Un esempio tra i più celebri di questa concezione, su cui torneremo in seguito nel corso dell’argomentazione, sarà sicuramente Joseph Beuys e la sua Scultura Sociale.

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Author:

Damiano Fina

Performer, philosopher and lecturer, Damiano Fina promotes the exercise of contemplation to explore the eternal through philosophical thought and the art of dance.

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