La danza alchemica dei quattro corpi: il metodo di Damiano Fina

La danza alchemica dei quattro corpi: il metodo di Damiano Fina

La danza alchemica dei quattro corpi: il metodo di Damiano Fina 1080 1080 Damiano Fina

“Con le loro immagini, gli alchimisti intendevano giungere allo spirito attraverso i sensi” affermava Michael Maier, alchimista tedesco vissuto tra il 1568 e il 1622. L’imaginatio è l’ingrediente per mezzo del quale le arti esprimono la sacralità dell’esistenza. La stessa pratica alchemica, infatti, assume il nome di ars. “Ars requirit totum hominem” è un antico motto alchemico che sta a significare che l’alchimia esige l’umanità nella sua interezza, ovvero nella pienezza delle proprie potenzialità. Anche per Paracelso, l’immaginazione è un magnete che attira gli oggetti del mondo esterno all’interno dell’essere umano per trasformarli.

Fare alchimia, quindi, significa dare corpo a quella capacità mimesica tipica dei bambini, per cui “l’essere umano è la cosa che lui pensa. Se egli pensa un fuoco, egli è un fuoco”. Da bambini, infatti, giochiamo per trasformarci in draghi, sirene e tigri. Anche per Democrito, le figure percepite con i sensi, immaginate o pensate, sono entità materiali concrete, le cui caratteristiche possono essere trasmesse all’osservatore.

Le quattro fasi alchemiche e l’eterno ritorno

Ciò che gli artisti della Magnum Opus sondano è una realtà celata dietro la realtà apparente. Le canoniche fasi alchemichenigredo, albedo, citrinitas, rubedo – sono parte dell’eterno ritorno che fa da costellazione a una serie di simboli indicanti il passaggio dall’uno alle determinazioni e, viceversa, dalle determinazioni all’uno. Autunno, inverno, primavera, estate. Corvo, cigno, pavone, fenice. Terra, acqua, aria e fuoco. Notte e giorno, Eros e Thanatos, Sole e Luna. L’arte della trasformazione presuppone, con tutti questi simboli, il superamento di tutti i dualismi. La congiunzione delle opposizioni dona vita al lapis, alla pietra filosofale. Anche l’ermafrodito, ovvero l’unione di Ermes e Afrodite, l’unione del richiamo sensuale allo stimolo intellettuale, simboleggia il ciclo alchemico. Per raggiungere l’unità degli opposti, l’aspirante alchimista deve attraversare con il corpo e con l’immaginazione una foresta di simboli, vivendo l’esperienza del viaggio trasformativo. Al termine del ciclo, proprio dove la fenice divampa al massimo splendore della sua fiamma eterna, comincia già il declino verso una nuova nigredo.

Rubedo, la fase finale e la fase iniziale dell’eterno ritorno, apre alla danza alchemica dei corpi quel mondo invisibile che spalanca la creatura umana oltre i propri confini, verso i cieli profondi dove  l’umanità ritorna polvere di stelle. Si torna alla spirale che collega la creatura umana al Big Bang, scomponendone le parti in carbonio, la stessa sostanza che compone stelle e pianeti. Da lì nasce una memoria che riattiva la danza degli astri, attorno al fuoco e sotto al peso incandescente del Sole che tutto controlla: dalle prime forme di vita nell’acqua fino ai nostri progenitori, ai nostri antenati, ai nostri genitori, ai nostri maestri, ai nostri figli, ai nostri allievi e alle cose che saranno.

Danzare rubedo è come immergersi nell’esplosione del Sole in estate, quando deflagra la fenice. Il suo primo occhio, incandescente al centro della Terra, si connette con l’osso sacro del danzatore come fa una radice con la terra. Si tratta di un asse magnetico, che tramite la forza di gravità attira a sé tutti gli elementi dell’orbita terrestre. Il suo secondo occhio si apre sulla stella connessa con l’osso sacro del danzatore e il cielo. Così fiorisce una forza infinita, che si perde tra le galassie e intima il volo della fenice verso l’oscurità profonda dello spazio. Tra questi due occhi spalanca le sue ali la danza della fenice, l’impossibile che si dona all’immaginazione. Qualcosa che non può essere visto con gli occhi e che, ciononostante, è ben immaginabile. Ai limiti tra veglia e immaginazione, il corpo alchemico danza, in rubedo, come la fenice nel cielo scintillante dell’universo.

Nigredo: la prima fase dell’Opus Alchemicum

Nigredo è il primo stato della materia durante il processo alchemico. La materia subisce la prima trasformazione, diventa oscura. Anche l’aspirante alchimista diventa nero; così come il linguaggio, il verbo alchemico, è oscuro di partenza. Tutto comincia dalle tenebre, come il brodo primordiale da cui tutto ha avuto origine. Come il caos iniziale, popolato da mostri marini e gorghi stellari. Dal buio comincia anche l’aspirante alchimista, che è cieco, imprigionato nel mondo delle apparenze, alle prese con una trama fitta di simboli.

Come in molte tradizioni sciamaniche, entrare nella grotta significa abbracciare il mondo delle tenebre. Entrando nella grotta l’aspirante alchimista seppellisce il proprio corpo e abbandona la vista del mondo così come appare. Nel buio della caverna l’alchimista attraversa nigredo, lo stato di putrefazione della materia. Il suo corpo e le sostanze che entrano nella grotta vengono divorate dall’oscuro, incontrando voci di altri mondi.

Si chiudono gli occhi per aprire nuovi occhi. Ecco che nella grotta l’aspirante alchimista incontra forze che non poteva conoscere altrimenti. Scopre che è necessario perdere la vista e seppellirsi per incontrare le essenze del mondo. Il canto degli antenati, le visioni degli spiriti guida, i segreti del Grande Corvo, questi sono i doni di un nuovo sguardo sul mondo. Grazie a nigredo si perde la vista per guadagnarne una nuova. Si attraversa il mondo delle apparenze per intraprendere il viaggio dei filosofi.

Nella caverna, grazie al sesto senso che acquisisce chiudendo gli occhi, l’alchimista incontra il Grande Corvo. Gli animali e i suoi antenati come guida. Nel mondo dell’oscurità. Ha azzerato tutto, la vista in particolare, per vederlo meglio. Nigredo, attraverso il sacrificio, insegna la legge del cosmo all’umanità. Così come accadde a Gesù in croce, Osiride, Dante, Orfeo… la dività muore per rinascere. Eros e Thanatos, creazione e distruzione. Come il viaggio dello sciamano, il corpo va seppellito per resuscitare.

Il significato della fenice e dell’ouroboros

“La vita s’illumina nel momento in cui uno sbandamento transitorio consente il movimento verso un più fertile equilibrio fra le energie dell’organismo e quelle delle condizioni in cui esso vive.” scriveva John Dewey. I quattro stati alchemici della materia sono solamente momenti inseriti in una danza che è superiore alla somma delle proprie parti. Questa è la danza alchemica dei corpi. Non viviamo solo sotto la nostra pelle, ma nasciamo per andare oltre ai nostri confini di carne. Aneliamo costantemente alla connessione con ciò che ci circonda. Ci ribelliamo a un mero stato di definizione, rimettiamo in discussione il nome delle cose. Andiamo oltre alla somma delle nostre parti, torniamo alle origini dell’universo.

Nel fuoco dell’ispirazione non possiamo far altro che ardere, tornare polvere. Il simbolo finale della danza alchemica dei corpi è l’ouroboros, il drago che si distrugge, mordendosi la coda. Il drago che si partorisce, cambiando pelle e vomitandosi dal suo vecchio corpo. La stessa immagine, due metafore apparentemente opposte. Da una parte la morte, dall’altra la vita. Da una parte la distruzione, dall’altra la creazione. La stessa immagine, la stessa cosa.

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Author:

Damiano Fina

Performer, philosopher and lecturer, Damiano Fina promotes the exercise of contemplation to explore the eternal through philosophical thought and the art of dance.

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