Cos’è la pedagogia queer e cosa significa “queer”?

Cos’è la pedagogia queer e cosa significa “queer”?

Cos’è la pedagogia queer e cosa significa “queer”? 1184 800 Damiano Fina

“Forse un giorno smetteremo di chiamare ogni cosa con il nome giusto” con queste parole mi piace riassumere una ricerca che è culminata con la scrittura del libro La danza di Eros e Thanatos per una pedagogia queer. Il motivo che mi ha spinto a scrivere questo libro è che abbiamo bisogno di una società nonviolenta.

È una non-lotta pacifica, politica, spirituale, artistica, sociale e culturale. Un principio diventato famoso grazie a Gandhi e oggi inseribile anche all’interno della rivoluzione queer. Un movimento che si prefigge il compito di liberare l’espressione di ogni creatura vivente cercando di abbattere la violenza delle categorie a partire dal nostro linguaggio.

La danza per la rivoluzione queer

Ma come è possibile garantire questa libertà senza sfociare nella violenza della società attuale? Una domanda che ho rivolto all’arte, prima ancora che alla filosofia; e che nella danza butoh ha trovato la sua risposta spirituale e concreta.

Grazie a questo approccio ho sviluppato un percorso teorico e pratico che, partendo da un libro, si è concretizzato in workshop e performance che mi hanno portato, dalla Loggia del Capitaniato, a Vicenza, nel 2016; all’Hokkaido Butoh Festival a Sapporo, in Giappone, e al Butoh Festival di Parigi, nel 2018; a Berlino e Salonicco, nel 2019.

Un giro del mondo fatto di ricerche e risposte, studi ed esperienze di quel contatto diretto tra natura e corpo che ha ispirato performance, laboratori e percorsi interiori che, avvicinando la pedagogia queer alla danza butoh e all’alchimia, avvicinano le persone all’arte e alla conoscenza di sé e dell’altro da sé.

Per una pedagogia queer

La pedagogia queer ha lo scopo di sottolineare la sacralità di ogni singola espressione e di permettere a chiunque di esprimersi liberamente; di essere chi realmente è e non chi gli altri vorrebbero che fosse.

Una pedagogia che sviluppi l’empatia e che si fondi su di essa come strumento per conoscere non solo se stessi ma anche gli altri; che non è rivolta solo a chi sente di non essere a suo agio con il proprio essere, ma a tutti visto che spesso inconsapevolmente ci ritroviamo a modellare la nostra identità su quello che la società vuole da noi, su stereotipi che ci vengono presentati come guide da seguire per sentirsi appagati e appartenenti alla comunità.

Non bisogna fare quindi l’errore di pensare che questo non ci riguardi, ritenere che il problema sia degli altri: soffermiamoci a riflettere se viviamo secondo la nostra essenza o se, per svariati motivi, ci ritroviamo a sopravvivere accettando di rifiutare noi stessi, di eliminare parti fondamentali della nostra personalità per paura di non ottenere l’approvazione degli altri.

“Forse un giorno smetteremo di chiamare ogni cosa con il nome giusto” (Fina D., Perturbazione, Lulù, 2013) è il lascito rivoluzionario della Danza di Eros e Thanatos. Amore e morte in un vorticoso movimento.

Lo scopo di questo saggio è fondare le basi metodologiche per una pedagogia che si assuma il compito di porre in evidenza la sacralità dell’espressione di tutti gli organismi. Dalla teoria queer alla danza butoh, la pedagogia queer nasce dall’unione tra ricerca accademica e pratica artistica. La danza butoh si basa sul rituale, un’esperienza incentrata sulla trasformazione. Sovvertendo le regole tradizionali attraverso il caos e la divinazione, il rituale stabilisce un nuovo ordine. Questo è il terreno fertile per lo sviluppo di una pedagogia queer.

Considereremo il termine queer nel suo significato entro la cosiddetta Queer Theory, che afferma la necessità di una liberazione del genere e del sesso rispetto alle etichette e alle categorie del linguaggio. Essere queer significa non giudicare il genere e il sesso altrui e considerare le varie forme dell’esistenza come l’esito dell’espressione naturale di ciascun organismo. Tale espressione, come vedremo, non è certamente limitata al rapporto tra un essere umano e il suo mondo interiore, ma è naturalmente rapportata con tutto ciò che circonda l’organismo.

Tre modi di intendere il termine queer

Ci sono almeno tre modi diversi di intendere il termine “queer” all’interno degli Studi di Genere:

  1. Primo, il termine viene utilizzato come ombrello “confortevole” per comprendere tutte le forme di sessualità che si distinguono dalla norma eterosessuale, ovvero tutte le categorie e sottocategorie comprese nell’acronimo LGBTIA.
  2. Secondo, “queer” diventa una categoria riconosciuta all’interno della sigla LGBTQIA, confondendosi tra le altre e utilizzata per comprendere quelle forme sessuali che non si riconoscono nelle definizioni comprese all’interno dell’acronimo.
  3. Terzo, “queer” viene utilizzato come termine rivoluzionario, che si rifiuta di indicare categorie e ruoli, includendo all’interno della propria riflessione tutte le espressioni sessuali (eterosessualità compresa), non limitandosi solo alla non-differenziazione degli orientamenti sessuali, ma mettendo in discussione l’identità di genere (uomo/donna), l’espressione di genere (maschile/femminile) e il sesso biologico (maschio/femmina). Nel presente articolo faremo riferimento a questo terzo modo d’intendere il termine, che rifiuta i tentativi di normalizzare l’espressione umana circa il genere e il sesso.

Per una pedagogia queer

Essere queer significa pensare e agire queer, considerare una nuova metodologia non solo all’interno della ricerca e del pensiero, ma anche nella propria visione del mondo e nell’utilizzo del linguaggio. È una scelta radicale, con un portato rivoluzionario, che si rifiuta di accettare le norme che regolano il mondo umano così come sono, sempre pronto a mettere in discussione l’utilizzo del linguaggio stesso.

Per David Ross Fryer, per esempio, essere queer significa prendere le distanze anche dalle lotte sui diritti per le coppie omosessuali, che ricercano un riconoscimento della propria posizione sociale entro le sue stesse regole. Nella sua anima reazionaria, si badi, la teoria queer non intende limitare o boicottare l’ottenimento di tali diritti, ma mira a problematizzare le conseguenze inerenti la perpetuazione di un modello eterocentrico e patriarcale.

La teoria queer è inclusiva e non esclusiva. Essere queer significa voler essere accettati così come si è e non per come gli altri vorrebbero che si fosse.

La storia queer di Harriette

In un breve documentario pubblicato dal canale canadese Global News il 7 dicembre 2013, viene presentata la vita di Harriette Cunningham, 10 anni, nata bambino, sentendosi bambina. Il documentario evidenzia come la sua esistenza sia stata accettata così com’è nell’ambiente domestico, mentre si scontri con i giudizi fuori dalla porta di casa, in una lotta continua con il servizio scolastico e con il governo stesso. Harriette Cunningham afferma alla telecamera: “Nei miei sogni non sono mai stata un bambino. Sono sempre stata una bambina, anche quando ero considerata un bambino”.

Mentre il sesso è riconosciuto alla nascita, il genere non si sviluppa fino al terzo anno di età. Attualmente, quando sesso e genere non combaciano, si riconosce il Gender Identity Disorder (GID). Il breve documentario s’interroga su come avanza la vita di Harriette giorno dopo giorno, nella sua quotidianità. Quando i bambini le chiedono “Cosa sei?”, lei afferma “Sono una persona, ecco cosa sono”. Ma la risposta del mondo circostante non è sempre accogliente.

Seguendo affettuosamente la vita di Harriette, la nonna Cathie Dickens ha cominciato a scrivere lettere al ministero canadese per ottenere la rimozione del genere dai certificati di nascita. Da questa iniziativa, nonna e nipotina hanno cominciato una vera e propria campagna politica, seguite dall’avvocato per i diritti umani Barbara Findlay, che afferma: “Quando ho ricevuto per la prima volta il mio certificato di nascita ho dovuto identificarmi nel mio nome, cognome, data di nascita e nel mio genere così come era scritto. Se fossi nata venti o trent’anni prima, avrei dovuto identificarmi anche con la mia razza, con l’occupazione di mio padre e quindi con la mia classe sociale, ma abbiamo già compreso che queste categorie sono irrilevanti”. Il genere è ancora considerato, alla stregua di nome, cognome e data di nascita, un dato rilevante per il certificato di nascita. L’intervista a Harriette si conclude con le sue semplici parole: “Non voglio solamente essere qualcuno che indossa un costume. I want to be me”.

Questo breve documentario pone in evidenza due aspetti centrali che motivano la presente ricerca. Per prima cosa l’importanza per l’organismo umano di esprimersi e la stretta relazione tra l’espressione del sé e il riconoscimento sociale. In secondo luogo, il documentario sottolinea la violenza della nostra società che colpisce gli organismi umani nella loro libera espressione. Si riscontra una difficoltà diffusa nell’accogliere l’altro; tale difficoltà si riflette sulla nostra lingua e sulle stesse categorie logiche che ne fondano il vocabolario.

Queer, danza butoh e libertà d’espressione

Quale compito può prefissarsi la danza all’interno di questo panorama? Nel mio indagare questo argomento, l’attenzione si è naturalmente rivolta alla danza butoh, una disciplina che ho cominciato a coltivare con Atsushi Takenouchi nel 2014 e che oggi mi ha portato a svolgere l’attività di performer in modo professionale. Per Sondra Fraleigh, la danza butoh è una danza scioccante e provocatoria, che scombussola le tradizionali distinzioni di genere e le differenze tra est e ovest del mondo nel suo uso della musica e dei costumi. La danza butoh viene definita dai suoi fondatori come la danza proibita, che nasce per essere sovversiva, catartica e liberatoria. La danza butoh mette in scena un’estetica androgina e integra un movimento nel quale Eros e Thanatos sono gli elementi fondamentali. Grazie a questa attitudine, la danza butoh si dimostra particolarmente interessante per una pedagogia queer.

Per Sondra Fraleigh il butoh è una danza provocatoria tanto quanto è dirompente il suono improvviso di un battito di mani nel silenzio.

La danza butoh esiste tra gli interstizi culturali, intende essere scioccante e provocatorio, possiede un’estetica che mira a cancellare le differenze tra “noi” e “loro”. Per queste caratteristiche il butoh scombussolerebbe le tradizionali distinzioni di genere e le differenze tra est e ovest del mondo nel suo uso della musica e dei costumi.

Pedagogia Queer e Danza Butoh: l’esempio di Kannon

Tra le immagini più iconiche del butoh c’è la dea della compassione Kannon. Una divinità androgina, sia femminile che maschile, il cui potere risiede nella metamorfosi, proprio per questo il suo stesso sesso è incerto. Sia Tatsumi Hijikata sia Kazuo Ohno erano soliti danzare in costumi maschili e femminili, per portare in scena entrambe le loro componenti. Nel butoh scompaiono le distinzioni con l’altro, comprese le distinzioni di genere e le distinzioni tra gli esseri umani e la natura.

Kannon, con la sua voce gentile e allo stesso tempo tumultuosa, madre e matrigna come la natura di Giacomo Leopardi, rappresenta la danza libera e spontanea delle emozioni e delle sensazioni. Piuttosto che schierarsi tra maschile e femminile, Kannon risiede nel loro rapporto sensuale ed erotico, compreso in ognuno di noi. Kannon è un bell’esempio, ma la danza butoh ci racconta di più di un mito.

Il make-up e il costume da scena sono fondamentali per il performer butoh. Lungi dall’essere considerate delle maschere, queste sono le forme espressive che permettono di entrare in contatto con ciò che s’intende evocare. Il trucco diventa un rituale, parte integrante della performance stessa, attraverso il quale il performer riconduce la sua forma all’origine del suo sentire. In merito al trucco, Kazuo Ohno afferma: “Le mie intenzioni nel vestirmi come una donna sul palco non sono di diventare l’imitatore di una donna, o di trasformarmi in una donna. Piuttosto, voglio rintracciare la mia vita all’indietro, sino alle sue più remote origini. Più di ogni altra cosa, io desidero ritornare da dove sono venuto”.


Leggi la recensione al libro di Tommaso Testolin.

Il rituale come perno della Pedagogia Queer

Lo spettacolo di danza butoh diventa un rituale attraverso il quale il performer e l’audience compiono un’esperienza trasformativa, sperimentando ciascuno -in forma di attore o di spettatore- le proprie possibilità d’espressione, trasformandosi e rinnovandosi grazie al rituale.

La sovversione delle regole, l’eccesso e la provocazione vengono riconosciute quali sperimentazioni utili per ripristinare un nuovo ordine. Il processo catartico che ne consegue fonda i presupposti per la creazione di un’esperienza estetica in grado di mettere in discussione gli abiti consolidati e di retroagire su questi fondando nuove visioni del mondo, più libere e disincantate.

La danza butoh, quindi, si presta bene come bandiera per una pedagogia queer, dal momento che promuove la libera espressione dell’organismo umano, oltrepassando le attuali violenze causate da un linguaggio e da una visione del mondo rigidamente dualistica.

Eros come movimento, Thanatos come stasi

Che l’amore sia movimento nel suo lato recondito potrebbe oramai apparire un’affermazione scontata. L’eros platonico del Simposio è costantemente teso verso qualcosa che manca, figlio di Penia e per questo fluido nel suo lasciarsi andare alla scoperta dell’oltre desiderato.

A ciò si lega l’impulso di morte nella misura in cui ciò che viene irrigidito e dunque “conosciuto” è morto, ucciso simbolicamente si potrebbe dire con un azzardo. Ciò che hegelianamente è morto è proprio la determinazione che l’intelletto comprende solo nella sua unilateralità, ponendola separata da quel sistema di interrelazioni che non può che svilupparsi come totalità.

Dico questo perché abbastanza hegeliana suona anche la ripresa della fondamentale nozione di organismo in John Dewey. “No creature lives merely under its skin” (Art as Experience) significa ribadire ancora una volta il ruolo definitorio auto-superantesi della membrana; un limite nasce, ma nel momento in cui si pone rimanda necessariamente all’altro da sé e quindi risulta già gettato nel suo superamento.

Società, genere e sesso oggi

Cosa accade se si calano queste affermazioni all’interno di una riflessione sull’identità, più specificamente ma non solo, riguardo al genere e al sesso?

Il libro di Damiano Fina sembra suggerire che i termini identità e individuo non vanno già molto bene, dal momento che presuppongono la discussione intorno a ciò che ci rende sempre uguali a noi stessi; molto meglio organismo, che bene tiene unite le istanze trasformative dell’esistenza e i continui giochi creativi che animano queste sperimentazioni performative.

Ma dove e come può tutto ciò, esemplificato nel testo attraverso alcuni passaggi riguardanti l’alchimia e i suoi sviluppi più recenti in Jung, trovare spazio?

La nostra società, viene detto, è una società violenta nella misura in cui impone categorizzazioni, etichette che nel momento in cui definiscono e pongono un superiore/inferiore esercitano una coercizione sui singoli immersi in un dato contesto. Felicity Zaccaria nella prefazione scrive che

Trovare una risposta alla domanda “Chi sono?” sembra essere la più grande conquista, eppure siamo sicuri che siano le risposte precise, categoriche, la vera soluzione? […] Damiano Fina scardina questa idea, mostrandoci come l’identità venga erroneamente ritenuta qualcosa che è possibile acquisire ad un certo momento della propria vita, un elemento che diventa una proprietà inalienabile e non più smarribile. (p. 7)

La teoria queer attraverso la danza di Eros e Thanatos

Non si tratta, tuttavia, a mio parere, di negare ogni qualsivoglia forma di stabilità; come afferma Judith Butler, filosofa che assieme a Michel Foucault guida il capitolo dedicato ai fondamenti dai quali muove l’esigenza di una filosofia queer:

[…] mi sembra fondamentale rendersi conto che una vita per la quale non esistono categorie di riconoscimento non è una vita vivibile, allo stesso modo una vita per la quale tali categorie sono un’insopportabile costrizione non può costituire un’alternativa accettabile. (Fare e disfare il genere)

Veniamo finalmente al fatidico termine queer, dal quale tutto poi si ramifica. Damiano Fina, oltre ai due significati che il termine può avere assunto (comprendente all’inizio tutte le forme di sessualità che si distinguono dalla norma eterosessuale e utilizzato poi per designare invece tutte quelle forme sessuali che non si riconoscono nell’acronimo LGBTQIA) introduce una nuova e radicale accezione del tanto dibattuto concetto:

[…] “queer” viene utilizzato come termine rivoluzionario, che si rifiuta di indicare categorie e ruoli, includendo all’interno della propria riflessione tutte le espressioni sessuali (eterosessualità compresa), non limitandosi solo alla non-differenziazione degli orientamenti sessuali, ma mettendo in discussione l’identità di genere (uomo/donna), l’espressione di genere (maschile/femminile) e il sesso biologico (maschio/ femmina). (p. 13)

Un libro queer: per una sospensione dell’esigenza definitoria

Il libro agisce alla base, facendo emergere quella che potrei chiamare “sospensione dell’esigenza definitoria”. Non si pone un io senza un tu, ma questo porsi non può che, riprendendo Butler, farsi e disfarsi continuamente.

Una epochè che, attraverso la riconnessione degli organismi con la trasformatività dell’esistenza, approda poi ad un originario ricongiungimento della dimensione sacra con la dimensione profana della vita, tutto ciò ben esemplificato grazie all’incontro di Damiano Fina con la danza butoh, nome dato a varie forme di danza contemporanea giapponese che sono anche sacrificio, rituale, e che, come si afferma

[…]si presta bene come bandiera per una pedagogia queer, dal momento che promuove la libera espressione dell’organismo umano. (p.103)

La danza per una pedagogia queer tra occidente e oriente

La parte più specificamente a questo dedicata, che se fosse qui riassunta tradirebbe la conoscenza con cui l’autore esprime alcuni caratteri di questa Forbidden dance, risulta interessante non solo per il portato “orientale” all’interno di una discussione talvolta troppo eurocentrica, ma soprattutto anche per lo snodo di passaggio che pone nello sviluppo della sopra denominata pedagogia queer.

La disciplina che assume tale nome non può che porsi come cogente nel momento della necessità di lasciare esprimere liberamente i componenti di una società violenta, il cui ineffabile e irriducibile “punto vivo”, trattato nella breve sezione dedicata a Pirandello, fatica a trovare spazio di movimento e processo.

Mimesi e trasformazione come metodo

La trasformazione diventa metodo, pratica laboratoriale, esigenza del superamento della sola dimensione accademica, alla quale poi troppo spesso si tenta di ricondurre la discussione queer, che si fa “contesto guidato e protetto” all’interno del quale si realizzi la necessità umana di sperimentarsi attraverso la mimesi, elemento cruciale. Non a caso il primo capitolo si apre con “l’animale più mimesico di tutti”, dove ovviamente l’aggettivo modifica e oltrepassa il normale significato del concetto di imitazione.

Dove rintracciare una dimensione politica?

Concludendo si potrebbe obiettare, e devo ammettere di aver avuto anche io questa prima impressione ultimando il libro, che il saggio sembri non dico escludere, ma quantomeno circoscrivere la dimensione politica, la lotta molto spesso e giustamente “scandalosa” se vogliamo, ambito di critica profondamente legato ad un certo filone delle queer theories.

Forse, ma a ben guardare la posizione assunta nel testo è di portata più ampia, costantemente utopica, mira ad una formazione progressiva, ad un cambiamento bottom-up, utilizzando un’etichetta probabilmente riduttiva, che a lungo termine continui nella realizzazione di una società queer, oltre gli interessi individuali e di gruppi più o meno ampi.

Per una rivoluzione non-violenta

Non dobbiamo infine dimenticare, ancora una volta, che motivo onnipresente risulta essere proprio la questione della violenza della società:

La posta in gioco, quindi, non è solamente la libertà di espressione dell’organismo umano, è la possibilità di condurre una vita degna di essere vissuta, senza subire la violenza di una società che la renda insopportabile perché non conforme alla norma. […] Esiste un diritto di esistenza, un diritto alla vita, un diritto all’espressione che non è possibile nel mondo contemporaneo. Questo saggio ha voluto sottolineare l’importanza di una nuova filosofia e di una nuova pedagogia che assimilino in loro il portato della riflessione queer. (p. 169)

Un libro radicale e rivoluzionario, che mette alla prova e chiede sicuramente molto, a tal punto da risultare imprescindibile all’interno di, ma soprattutto oltre, un dibattito oramai forse troppo acceso.

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Author:

Damiano Fina

Performer, philosopher and lecturer, Damiano Fina promotes the exercise of contemplation to explore the eternal through philosophical thought and the art of dance.

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